skip to Main Content

Autori ed attori di un destino comune: ripartire da noi stessi

Autori Ed Attori Di Un Destino Comune: Ripartire Da Noi Stessi

Autori ed attori di un destino comune: ripartire da noi stessi

Negli scorsi articoli ci siamo soffermati su diversi termini come incertezza, resilienza, antifragilità che devono caratterizzare le organizzazioni di oggi. Abbiamo cercato di fare sensemaking per affrontare  un’ulteriore tappa del percorso: ripartiamo da noi stessi, autori e attori di e in un destino comune.
Il concetto di ri-partenza deriva dal latino “partiri”, cioè dividere. Indica il dividere in due parti, l’allontanarsi da un luogo per giungere ad un altro, il prendere avvio e il mettersi in movimento. Il concetto, in tutte le sue accezioni, prevede una scelta, una programmazione, un’analisi del contesto. Ripartire è riprendere un moto che porta con sé una parte già vissuta, consolidata della sua essenza, essere autentici, autori e attori di un destino comune, ripartendo da noi stessi.

Ripartire da noi stessi: autori e attori audaci

“Certe cose cambiano con un movimento di torsione violento, che fa male, e che non pensavi di poter fare. Certe cose cambiano per uno choc gestito bene, per una qualche crisi convertita in rinascita, per un terremoto vissuto senza tremare. Lo choc è arrivato, la crisi la stiamo soffrendo, il terremoto non è ancora passato. I pezzi ci sono tutti, sulla scacchiera, fanno tutti male, ma ci sono: c’è una partita che ci aspetta da un sacco di tempo. Che sciocchezza imperdonabile sarebbe avere paura di giocarla” (Baricco, 2020). Forse è compito degli intellettuali, come suggerisce Baricco nell’articolo, di aiutare con piccoli spunti a ritrovare l’audacia: il concetto di ripartenza, che porta con sé il vissuto di fragilità e perdita, è il nostro modo di proporvelo. 

Gestire l’emergenza: un esempio

Dall’intervista all’amministratore unico di IPM srl, Sergio Tornaghi1, risulta chiaro come la ri-partenza possa essere un momento in cui focalizzarsi su pratiche già consolidate.“Per l’azienda, questa viene vista come un’opportunità, lo vediamo come un primo passo verso una più decisa modernizzazione dei sistemi lavorativi, che si integrano perfettamente con l’automatizzazione,che già stavamo attuando in accordo ai progetti dell’industria 4.0” 

Ognuno di noi può ripartire con le pratiche già consolidate e quelle acquisite in questo periodo. Può ricominciare portando con sé il vecchio e il nuovo, il consolidato e quello ancora da consolidare; deve ripartire dal suo contesto, dalla sua vision, dalla sua unicità. 

Per altri, come sostiene Andrea Pontremoli (link), i tempi di questa ripartenza sembrano associare all’incertezza la velocità, generando il caos. In questo contesto, per alcuni caotico, “prendere coscienza della propria unicità”, afferma l’economista Jacques Attali, è l’unico modo per diventare se stessi: “ciascuno può fare per sé e per gli altri, nel lavoro e nel tempo libero, cose che nessun altro ha fatto e non potrebbe mai fare nello stesso modo”.  Questo significa essere ingaggiati nella propria unicità ed usarla verso il “destino comune”, che riconduce tutti nella stessa situazione, nello stesso luogo. Ognuno di noi può lavorare per sé,  per l’altro e per la comunità.

Riprendere con successo: essere autori e attori

Ci piacciono queste due parole, specie in questo tempo di ri-partenza per molti, di ri-presa per altri, di lavoro in un contesto caotico per altri ancora: Autori e Attori. Sentirsi attori e/o autori, e questo sentirci uno e/o l’altro, non fa una differenza da poco.

I tempi che stiamo attraversando ci spingono fortemente a sentirci in entrambi i ruoli, seppure in momenti e con modalità differenti, a seconda delle situazioni. Si tratta di non essere esecutori di procedure prestabilite, ma attori che interpretano la loro parte, secondo copioni che lasciano margini di discrezionalità. Altresì siamo anche autori che contribuiscono a costruire la realtà organizzativa  (Bodega, Scaratti, 2013). Far bene la propria parte e sentirsi “parte di …” permette la connessione fra persone e organizzazioni, potenziando entrambi e quindi rafforzando l’idea del “destino comune”.

“Eppure, nel bene e nel male, il destino comune, ignorato o consapevolmente assunto e ricostruito, lega e muove e ha un ruolo fondamentale sulla sorte del gruppo e dei singoli che lo compongono (Casagrande, 2020).  

Il destino comune 

Siamo abituati sin da piccoli a scomporre la realtà che ci circonda per comprenderla, conoscerla e descriverla. Frammentare ci permette di sopravvivere, ci fa risparmiare energia nei nostri processi psichici e nelle attività quotidiane. Ma per questo, come dice Senge “paghiamo implicitamente un prezzo enorme”. Non ci rendiamo conto dell’interdipendenza delle nostre azioni, del nostro fare, del nostro condividere i risultati delle decisioni, anche lontane: apparentemente non dovrebbero avere alcuna conseguenza sulla nostra esistenza. Così facendo non percepiamo come le nostre azioni si leghino l’una all’altra, e perdiamo il senso del nostro essere parte di un sistema dinamico e convergente; non cogliamo il senso e il significato dell’esistere insieme, che lega tutte le persone appartenenti ad un’organizzazione, che ci rende autori ed attori di un destino comune.

Cultura organizzativa

Le chiavi della ripartenza sono la focalizzazione sul sé, sul noi e sull’organizzazione in generale. Per farlo bisogna, innanzitutto, addentrarsi nelle peculiarità di ogni realtà. 

L’organizzare porta al suo interno il bisogno di raggiungere l’ordine, di fronteggiare il caos. Si tratta della nostra percezione: “il fatto che qualcosa o qualcuno sia considerato ben organizzato dipende da chi sta osservando e da che cosa sta osservando” (Bodega, Scaratti 2013). 

Ogni manager, direttore, imprenditore può percepire la sua organizzazione in un certo modo, può lavorare all’interno di essa dando importanza ad alcuni aspetti piuttosto che ad altri. 

Sergio Tornaghi, descrive così la sua organizzazione nel momento dell’emergenza“…… prendiamo questa situazione come una grande lezione e secondo me deve essere vista come un’opportunità, al netto del dolore per la tragedia che stiamo vivendo. Tutti siamo adesso ‘costretti’ ad adeguarci o perlomeno a pensare come possibili alcuni principi, sia lavorativi che sociali (come appunto lo smart working, automazione etc.). Affrontare  i problemi in modo più efficace e non solo efficiente. Si tratterà di adeguare la mentalità in azienda ad un nuovo modo di lavorare, anche quando si tornerà alla ‘normalità’. Si tratterà di ripensare alla cultura organizzativa”.

Analizzare un’organizzazione vuol dire dare voce alla sua cultura organizzativa, l’elemento che la rende peculiare rispetto alle altre: “la cultura è come si fanno le cose qui da noi” (Schein). La cultura permette a chiunque entri nell’organizzazione di riconoscerla, con le sue relazioni, strategie, valori. 

Organizzare nel caos: un “orologio” per osservare la realtà

Le organizzazioni non sono orologi, sostiene Weick (1993), e se qualcuno di noi insistesse nel considerarli tali, dovrebbe prestare attenzione perché l’ora: 

  • che realmente riporta viene modificata dall’ora che dovrebbe mostrare.
  • potrebbe essere riportata in modo diverso in funzione del gradimento estetico suscitato nell’osservatore.
  • sembrerebbe diversa a seconda di chi la guarda.
  • risentirebbe della vicinanza di altri orologi vicini.

Infine, se consultassi frequentemente l’orologio, si potrebbe modificare l’ora che questo riporta.

Vivere una “complessità commensurata”: leggere i “tradeoff”

Avete presente il concetto di tradeoff? La relazione tra due variabili tale che la crescita di una è incompatibile con la crescita dell’altra; anzi la crescita di una variabile va a determinare la contrazione dell’altra. Si tratta di un processo che ci permette di dare ordine alla realtà accettando di non poter controllare tutto e non poter raggiungere mai la perfezione. 

Osservare la propria realtà e l’organizzazione significa fare ricerca. Pensiamo al postulato di Thorngate (1976) sulla “complessità commensurata”. Immaginiamo il quadrante di un orologio: alle dodici scriviamo la parola “generale”, alle quattro la parola “accurata” e alle otto la parola “semplice”. Se disponiamo il postulato sul quadrante, possiamo vedere “il dilemma” (o tradeoff) insito in ogni ricerca. Se, fra le qualità di generalità, accuratezza e semplicità, si cerca di mantenerne due, automaticamente la terza viene sacrificata. 

L’orologio della complessità: alcuni esempi

La “Ricerca delle due” è generale ed accurata, ma non semplice, anzi è difficile. Si può far riferimento al concetto di diagnosi organizzativa. Le organizzazioni riconoscono i “problemi” solo quando si verificano eventi che limitano la loro funzionalità. Diventa necessario allora:

  • Leggere il quadro “sintomatico”, ovvero categorizzare il problema. 
  • Procedere all’ “anamnesi”, al quadro generale delle strategie, delle funzioni, delle relazioni e dei processi significativi. 
  • Approfondire con numerosi ed eterogenei strumenti di ricerca. 
  • Fornire un quadro interpretativo della situazione organizzativa ed individuare i correttivi necessari per risolvere il problema iniziale. 

La “Ricerca delle sei” è accurata e semplice, ma non generale. È interessante che gli studi di laboratorio e i “case studies” si posizionino in questo quadrante. L’accuratezza e la semplicità di alcuni strumenti di indagine non devono trarre in inganno: l’interpretazione è fatta in un certo contesto. Dovremmo maneggiare con molta attenzione le interpretazioni specifiche di alcune situazioni. In questo caso la generalità acquista un’importanza secondaria.

La “Ricerca delle dieci” combina generalità e semplicità a spese dell’accuratezza. Interessante per spiegare questa posizione è il principio di Peter: “Ogni membro di un’organizzazione gerarchica sale nei livelli della gerarchia sino a raggiungere il suo massimo livello di incompetenza”. Ravetz (1971) afferma che chi fa ricerca in questo modo produce aforismi piuttosto che conoscenza dedotta, e adatta la propria attività di ricerca di conseguenza. Quindi, sostiene Weick (1993), gli aforismi sono comprensibili in un modo immediato, seppur consapevoli dei loro limiti. Pensiamo ad esempio all’aforisma di Bertrand Russel “Il problema dell’umanità è che gli stupidi sono strasicuri, mentre gli intelligenti sono pieni di dubbi”.

Gestire la complessità: antifragilità e audacia 

L’antifragile riguarda il prendersi cura della propria fragilità, fare delle scelte che conducono alla tutela: “…. In azienda, in generale, è cambiato il modo di lavorare in modo molto significativo: si ha più necessità di sicurezza” ci dice ancora Sergio Tornaghi, amministratore unico di IPM srl.

Dall’intervista emerge anche che la ri-partenza potrebbe essere pensata come momento utile per lavorare sugli aspetti antifragili, in cui agire come attori ed autori di un destino comune. “Al di là della drammatica situazione odierna, che porterà anche a diversi cambiamenti in campo organizzativo, vediamo la possibilità e l’opportunità di un rinnovamento nel futuro: sia per quanto riguarda l’applicazione di nuove tecnologie sia per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro”. 

Un atteggiamento audace, si potrebbe considerare tipico delle organizzazioni resilienti, ma in particolare antifragili. L’audacia si esprime nell’assumere il rischio di una scelta innovando prodotti, processi ed elementi già esistenti oppure creando qualcosa di completamente nuovo, a cui nessuno aveva ancora pensato. E la pratica innovativa, come afferma Schön in “Professionista Riflessivo” (1993), tende ad essere legata al contesto: “la sua abilità di ottenere gli esiti desiderati è spesso una funzione dello specifico ambiente locale (economico, tecnologico, culturale, intellettuale, interpersonale) nel quale si è sviluppata”. 

 

1Sergio Tornaghi, amministratore unico della IPM srl, azienda di circa 20 persone. Produce filtri sterilizzanti per applicazioni Pharma e F&B. Come riportato nell’intervista integrale, durante il lockdown per l’emergenza COVID-19 alcuni collaboratori sono rimasti operativi con modalità smartworking, mentre altri hanno continuato a lavorare. 

Back To Top